lunedì 19 giugno 2017

Per un diverso sistema


  In genere, è buona regola non lamentare i lati negativi o contraddittori di una prassi relativamente nuova, se non si disponga di ragionevoli proposte per successivi avanzamenti. Questo vale anche per la legittimazione del potere politico per via elettiva popolare. Nessuno che viva dove l’autoritarismo è consegnato al passato, e che abbia un minimo di coscienza civile, può rimpiangerne le forme, via via abbandonate in Occidente e nei Paesi da esso influenzati, basate sulla conquista militare, sulla successione dinastica o sulla cooptazione: rispetto a queste, i difetti del suffragio popolare contemporaneo sono poca cosa, ma in sé sono evidenti, anche escludendo il mascheramento di tipo plebiscitario e i brogli elettorali impuniti, casi oggi riguardanti solo certe parti del mondo. Si tratta, essenzialmente, della reale affidabilità di quanti competono per la rappresentanza popolare, in un agone più acuto nei periodi elettorali ma perenne, spesso infarcito di retorica, e dove la vittoria diventa una sorta di unzione, che rende l’eletto intoccabile. Alternative convincenti a questo sistema non se ne propongono: tale, infatti, non può considerarsi l’antico metodo, da qualcuno evocato, dell’elezione per sorteggio, essendo incapace di selezionare i candidati in base al merito. In certi Paesi si sta diffondendo la convinzione che vada ridotta l’autonomia decisionale dell’eletto, attraverso un regolare ricorso a consultazioni di tipo referendario: ciò risolverebbe il nodo dell’affidabilità del rappresentante, ma sarebbero ingigantiti altri punti critici, anzitutto quello delle competenze di quanti, avendo molta parte del proprio tempo occupato dal lavoro, difficilmente possono ponderare in misura adeguata i molti problemi di una vasta e complessa collettività. 
  Se l’azione politica fosse assimilabile alle professioni, la via d’uscita da quest’incertezza si sarebbe già percorsa: la legittimazione del suo esercizio deriverebbe dalla formazione specifica, dai concorsi, dal riconoscimento del merito; cadrebbe poi il privilegio dell’immunità, e il politico sarebbe denunciabile anche per un cattivo esercizio del suo incarico. Questo sistema richiede però che gli scopi della politica siano individuati e condivisi non meno di quanto avvenga in ogni altra attività: non dovrebbero esservi più differenze ideologiche in politica di quante ve ne siano in chirurgia, in ingegneria o in direzione d’orchestra. Se oggi manca una filosofia politica condivisa, è perché manca una filosofia etica e, in definitiva una filosofia generale condivisa, essendo la politica, in questa catena, l’anello di collegamento tra idea e prassi. La distanza dalla meta si misura tramite due fatti ben distinti: l’uno, il prevalere di interessi parziali, di individui, gruppi o classi, avulsi dall’interesse pubblico e causa perciò di un abbassamento della condizione collettiva; l’altro, l’idea di una finalità dell’azione che trascenderebbe la vita terrena, secondo la visione di un’autorità rivestita di potere spirituale. 
  L’immissione dei massimi concetti nella comunicazione umana è dunque il primo e indispensabile passo verso la politica cosciente, quella che vede il proprio unico, vero scopo nella forbice tra conservazione e incremento del bene collettivo, da quello di una città a quello del pianeta; bene misurabile almeno empiricamente, sommando le condizioni di ogni individuo e ricavando la media. Il diritto di voto, se il risultato non è questo, è ben poca cosa, ed è più corretto legare ad esso il nome di demarchia che quello di democrazia.