Io
sono nato il 3 maggio del 1963. Però questo non significa che il due, il primo
maggio, il 30 aprile di quell’anno io non esistessi, al contrario, non ero
diverso se non perché a una cert’ora di quella data cambiai definitivamente posto,
dall’interno di mia madre mi ritrovai all’esterno, venni alla luce. Immaginando
di osservare a ritroso, da quel momento, le fasi del mio sviluppo, vedo cominciare
e poi aumentare le differenze; a un certo punto non riconosco più nel mio aspetto
quello di un essere umano. Ancora più indietro, e di me, o di quell’entità che
diverrà la mia persona, non vi è più traccia, e restano le sue cause: un uomo e
una donna che abitano nella stessa casa, che dormono nello stesso letto matrimoniale
dove, una volta di più, avranno un rapporto completo. Vengono poi le cause
delle cause, come radici che si suddividono in altre radici, e in altre ancora,
fino a che mi diventa impossibile conoscerle e tenerne il conto. La gravidanza
di mia madre fu del tutto regolare, perciò nel novembre del 1962, passato dall’essere
embrionale a quello fetale, tutti i miei organi erano formati, avevo già le
fattezze di un essere umano. Ecco quel che mi fa propenso a datare da quel
momento l’inizio della mia esistenza, e ad ammettere l’interruzione volontaria
di gravidanza, senza che se ne debbano indagare i motivi, non oltre le sette settimane
dal concepimento. Dopo, non è più possibile eseguirla tramite farmaco, e i
rischi dell’intervento per la salute della gestante aumentano. Nelle normative di molti Stati prevale quest’ultimo aspetto, con varie
approssimazioni: si va dalle dieci settimane del Portogallo alle ventidue dei
Paesi Bassi. Si direbbe che se la tecnica potesse abbattere il rischio, la
soglia legale sarebbe alzata, o esclusa del tutto, com’è già, chissà perché, in
metà degli Stati Uniti. È dunque diffusa una scarsa distinzione tra l’inizio
dell’esistenza e l’essere partoriti; rispetto alla sua antitesi, il porre l’inizio
dell’essere umano nel giorno del concepimento, quest'opinione appare ancor più
povera di pensiero. Fanno eccezione casi come la sindrome di down, diagnosticabile
oggi non prima delle undici settimane, e ovviamente quelli delle complicazioni
potenzialmente letali per la gestante.
All’altro capo del filo, alla fine, mi
attende un’altra data. Stavolta non dovrebbe porsi alcun divario, morire e non
essere più sono lo stesso. Non mancano quaggiù circostanze particolari, che di
nuovo manifestano opposte mentalità. Gli ospedali sono forniti di
apparecchiature che tengono in vita persone gravemente malate o incidentate,
sostituendo la perduta facoltà di alimentarsi, idratarsi o respirare; ma quella
vita è tanto penosa e limitata da sembrare tutt’altro che un guadagno. Dopo un
certo tempo, in molti casi, esse rivogliono ciò che tali mezzi hanno scongiurato.
Per costoro, il giorno della morte rinviata precede quello della morte
desiderata. La prima, se non è trovata una cura efficace, e se non abbia
annientato coscienza e sensibilità, è morte dello spirito, inteso come volontà
di vivere. Possono esserne causa non solamente le irreparabili lesioni del
sistema nervoso e muscolare, ma anche quelle psicologiche, quando siano tali da
rendere insopportabile la percezione di sé e del mondo. Tuttavia l’esistenza, l’essere
in un modo, spazio e tempo determinati, pur trascinandosi prosegue, mentre dopo
la data che probabilmente qualcun altro, da qualche parte, scriverà, quel che
resta non è più, non è mai lo stesso essere. Io non mi identifico con una
massa inanimata, con un cibo per larve di insetti, con le future, ignote
composizioni delle mie particelle subatomiche e onde di energia, con qualsivoglia
effetto che mi sopravviva, prodotto dal mio essere sull’altro. Certo, in senso poetico, se per i suoi effetti
principali una vita merita un’estesa riconoscenza, può continuare anche sotterra, ed è quella, non l’aldilà
del luogo comune, la “miglior vita”.
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