La Costituzione
italiana inizia con una definizione. L’essere
delle leggi è il dover essere, qui
perciò la definizione non è, anzitutto, descrizione, ma ciò che esige
attuazione, in quanto, per esperienza e pensiero, in esso si vede un bene non
spontaneamente compiuto, non sempre e non ovunque. A essere definito è il
Paese, l’Italia, e i concetti che compongono la definizione sono: repubblica, democrazia, lavoro, sovranità,
popolo. Questi concetti si danno per evidenti e acquisiti; solo a quello di
sovranità, con il secondo comma, è data una specificazione, onde escluderne il
tipo illimitato, assoluto. Di fondo, il concetto a cui la norma si ispira è parità. La repubblica è diversa dalla
monarchia, anche da quella costituzionale, perché nessuno vi nasce nobile, predestinato al comando o all’autorità. La democrazia è la diffusione del potere
nella popolazione. Il lavoro è fondamento perché bisogna che ognuno
contribuisca al benessere generale. C’è una sovranità, seppur relativa, e
questa è attribuita al popolo, non a questa o a quella élite. Nell’essenza,
dunque, l’articolo uno dice: la parità è
bene. Ciò è del tutto comprensibile: il costituente è come un padre, e un
buon padre non usa disparità, vuole il bene per i propri figli in egual misura.
Questa misura, tuttavia, non può essere la più alta in termini di ricchezza.
Qualora sessanta milioni di persone disponessero ciascuna di un patrimonio
attorno ai venti miliardi, come Ferrero o Del Vecchio, sarebbero esaurite le
risorse non solo dell’Italia ma di un bel pezzo di mondo, si provocherebbe cioè una catastrofe
infernale. Sul piano economico, la parità dev’essere dunque commisurata a una
certa medietà, meglio ancora a una certa sobrietà. La deduzione è semplice:
senza l’abolizione delle grandi ricchezze, non c’è attuazione della carta
costituzionale. Essa vuole una rivoluzione, e non c’è modo di fuggirne
sostenendo che non contano i patrimoni ma i diritti fondamentali, come se il
ricco si distinguesse dal povero solo per l’accesso ai beni voluttuari, e non
anche per quelli a una sanità, a un’istruzione, a una difesa nettamente superiori.
domenica 4 novembre 2018
martedì 16 ottobre 2018
Il senso
“Quale pianeta
ha più valore, Venere o Marte?” La domanda da me posta appare alquanto bizzarra.
La rivolgo al signor X, che non ha tempo da perdere e la lascia cadere. Provo
con altri due che, più benevolmente, provano a rispondere, in base a ciò che
sanno di quei pianeti. Il signor A, dopo una breve riflessione, dà il primato a
Marte, essendogli giunta notizia che potrebbe esservi acqua, o almeno esservi
stata; e poi, Marte ha due satelliti, Foibos e Demos, mentre Venere non ne ha
alcuno. Tuttavia, Venere è più grande e più luminoso di Marte, per cui il
signor B dice Venere. Con il pareggio si direbbe dunque confermata
l’impressione che quella domanda fosse un giochetto vacuo, ma è interessante
come i signori A e B, nei loro responsi, abbiano dato importanza a certe
qualità più che ad altre. A loro avviso, grandezza, luminosità, pluralità di
elementi conferiscono valore all’ente, in altri termini potere di
condizionamento, poi tutto sta nel dosaggio di tali qualità. Quanto alla
domanda: “i giudizi di questo tipo sono oggettivi o soggettivi?” la risposta è:
sono oggettivi nella misura in cui i mezzi percettivi dell’essere umano, la
sensibilità in primis, e di seguito la ragione, formano un concetto dell’ente,
una sua riproduzione mentale. Se le risposte di A e B sono diverse non
significa che una sia valida e l’altra no, ma semplicemente che i due non hanno
pensato alle stesse qualità dei due enti proposti a oggetto. Essi, nel nostro concetto, si somigliano più
che differenziarsi. Se nella domanda fossero invece compresi la Terra e uno
qualunque tra i pianeti del sistema solare, balzerebbe agli occhi il fatto che
nell’una pullula la vita in milioni di specie differenti, compresa la nostra,
mentre negli altri essa è del tutto assente. Ciò non toglie che il signor X,
già infastidito dal precedente interrogativo, neghi che questo secondo abbia
maggior senso, mentre A e B concordano nell’idea che la Terra abbia
incomparabilmente più valore di ogni altro pianeta. Questa volta la differenza
di vedute è tanto rilevante dal porre l’una o l’altra nel novero dell’errore:
non possono avere ragione tanto X quanto AB, e io, schifando l’aria da
intellettuale del primo, ne trovo maggiormente nei secondi, gente semplice.
La pluralità dei modi dell’essere è la
massima distanza dal nulla, e io mi riconosco nell’heideggeriano pastore
dell’essere. La superiorità della Terra entro il sistema solare, o meglio,
entro tutta l’area ancora da misurare ove non vi sono organismi, si deve alla
presenza su di essa di modi d’essere assenti in ogni dove, quelli che la
tassonomia biologica si sforza di classificare; sarebbe notevole anche se non
vi strisciassero che poche cellule, ma il dominio degli eucarioti, comprendente
anche le piante, gli animali e quindi l’uomo, rende gigantesco il divario.
Sulla Terra vi è poi un altro modo ontico, quello delle opere umane, il cui
aumentare cambia la faccia del pianeta. Esse, quando sono frutto di ingegno,
operosità, genio, costituiscono un valore aggiunto, ma solo fino a quando non
iniziano a intaccare la biosfera, com’è invece accaduto. L’espansione della
tecnica porta con sé quella della nostra specie, ma ciò passa per lo
sfruttamento della natura, la cui estensione diminuisce, finché non solo si
annulla il vantaggio dell’uomo, fino a rovesciarsi nel suo contrario, ma
diminuisce il valore stesso della Terra.
Coscienza ontica è dunque competenza
assiologica, da cui pienezza di senso per l’azione, direzione morale. Dal
momento in cui è acquisita, non serve più cercare questo senso, senza il quale
l’uomo si fa strumento della distruzione generale, fuori dal sapere,
nell’immaginazione mitopoietica su cui poggiano le religioni. Agire nell’amore,
nell’ammirazione, nel contributo, nella difesa dell’essere, nella
consapevolezza del valore di ogni ente, è filosofia pratica.
martedì 21 agosto 2018
Destino
Il
pensiero che vaga liberamente, stanco dei freni, stanco di credere alle
stranezze sacrali entro cui una certa religione lo teneva in custodia. Dove va?
È un bene o un male che quel cervello pensi, senza riverenza verso ciò che i
pedagoghi vi introdussero quand’era fanciullo, senza dare per certo che le
opinioni prevalenti nella società siano quelle giuste, le migliori possibili? Indubbiamente
c’è qui un pericolo, e non da poco. Salvo un miracolo, l’errore è garantito, e può
essere tanto grave da cagionare danni irrimediabili, a sé e agli altri, se non la
morte prematura, la propria, quella d’altri, quella del mondo. Sì, forse era
meglio credere alle favole, quelle che avevano la virtù di trattenere l’uomo
dalle brame deleterie, tranquillizzandolo con l’immagine fantastica di
un’estensione più grande di ogni possibile estensione terrena, infinita,
nell’oltremondo. Certo, questo è viver
come bruti, ma meglio bruti, o incompleti, che rovinati o morti. Poi c’è l’ideale:
il pensiero che, nel suo libero volo, arriva a comprendere tutto ciò che deve
assolutamente comprendere, e lo fa prima che sia troppo tardi.
martedì 7 agosto 2018
Revisione del peccato
La dualità ordinario – straordinario corrisponde a un fatto non solo nella manutenzione di certi oggetti, ma anche in psicologia, e ciò in riferimento alla soddisfazione. Le cause, rispettivamente, sono dette naturali o culturali. La soddisfazione ordinaria è comune a tutte le specie viventi: essa risponde a esigenze basilari, che si ripresentano nel corso della vita, con frequenze diverse, quali respirazione, idratazione, alimentazione, escrezione. Altra è la soddisfazione procurata da un incremento della propria estensione spazio - temporale, che è consentita da una manipolazione di enti naturali, frutto d’ingegno, la creazione di oggetti variamente funzionali. La soddisfazione naturale è il portato della conservazione di sé, mentre quella straordinaria, culturale, è dovuta alla propria espansione nello spazio - tempo. Storicamente, l’uomo europeo è il primo soggetto in cui la tendenza all’espansione, in molteplici direzioni, si è manifestata nel modo incessante a noi ben noto; egli l’ha poi trasmessa, o imposta, al mondo tutto, originando l’attuale situazione planetaria. La popolazione umana è (2018) di circa sette miliardi e mezzo, e aumenta costantemente. Di questi, i più non desiderano semplicemente nutrirsi, ma anche deliziare i propri palati; non solo vestire i propri corpi, ma sfoggiare capi alla moda; non solo muoversi da un luogo a un altro nelle vicinanze, con calma, ma raggiungere velocemente e comodamente qualsivoglia parte del pianeta. Ciò avviene in misura ineguale nella popolazione, secondo come disposto dalla dea Fortuna. Molti si concedono più libertà di quanto non accadrebbe se ad essa fosse sempre ben unito il rispetto, anche nei confronti delle entità naturali. Il costo di tutto ciò ha finito da tempo di essere una questione del tutto interna alla nostra specie. L’aria e l’acqua si inquinano per i residui industriali e intestinali, il mare si riempie di plastica, il suolo si inaridisce, la varietà floristica e faunistica si riduce. Le ripercussioni di tale processo espansivo sono ormai manifeste, sotto forma di disagio generale, di intossicazioni e tumori, di decessi innaturali. Senza un’inversione di tendenza, senza la coscienza, l’impegno di tutti, la Terra comincerà ad assomigliare a Marte o a Venere, e di ciò l’uomo sarà al contempo causa e vittima.
Tornando alla psicologia, se ne conclude che la soddisfazione straordinaria, almeno nella fattispecie comune, concreta, è ingannevole. Ecco dunque rivisto il peccato alla luce della ragione, fuori dalla teologia.
Tornando alla psicologia, se ne conclude che la soddisfazione straordinaria, almeno nella fattispecie comune, concreta, è ingannevole. Ecco dunque rivisto il peccato alla luce della ragione, fuori dalla teologia.
lunedì 19 marzo 2018
Il governo governato
Nihil est sine ratione, diceva Leibniz; detto
diversamente, tutto ciò che esiste ha una causa, o meglio una serie di cause
efficienti. I governi esistono, quindi anche l’azione di governo sottostà a
questa legge ontologica. Da indicare, tra le cause del governo, il diritto
grazie a cui certe persone governano: in passato, esso veniva da azioni di
forza, da eredità o da elezioni oligarchiche, oggi prevale il suffragio
universale, domani chissà. Se tuttavia ci atteniamo alla causa immediata dei
governi, questa non è altro che la coscienza dei governanti, e l’elemento
essenziale di tale coscienza è o dovrebbe essere il concetto del bene, quello
della Nazione, del popolo, insomma il bene generale. Nel corso dei secoli, le
società umane hanno individuato nell’elezione popolare il mezzo che più di
tutti dà alle nazioni un governo mosso da questo concetto, eppure è del tutto
evidente che, ancora una volta, il perseguimento del bene non è garantito.
Compiuta l’opera di persuasione, difatti, nelle aule governative la voce del
popolo comincia spesso a giungere flebile, o distorta, mentre è stentoreo il
richiamo degli affaristi, ai quali tali politici finiscono col somigliare,
quando non sono addirittura la stessa persona. Nulla di intrinsecamente
malvagio nell’abilità ad arricchirsi, ma una politica che, anziché includerne le dinamiche nella propria azione di governo, si fa governare da chi la
possiede, non è più rispettabile delle politiche che ci siamo lasciati alle
spalle.
martedì 27 febbraio 2018
Essere o non essere onesti
«Purtroppo sono onesta», sentii dire un giorno da
Marta, una studentessa che aveva appena saldato un debito, per via di un’utenza
presso un’abitazione da lei lasciata un paio di mesi prima. L’accordo era
meramente fiduciario, ed io, con intento elogiativo, le avevo fatto presente
che, in quei casi, si trova spesso chi se ne infischia e sparisce senza aver pagato, certo di non
subirne conseguenze perniciose. La risposta della giovane mi giunse come una
nota stonata, e il mio tentativo di rettificarla non fu abbastanza efficace.
Quel “purtroppo” anteposto all’aggettivo manifestava l’idea che la disonestà
paghi assai più del suo opposto, cioè che l’essere onesti sia un difetto, o una
condanna. Un’onestà come quella di Marta lascia molti dubbi, poiché sembra
dovuta alla debolezza anziché alla forza d’animo, e avere come effetto la
frustrazione, non certo l’orgoglio. Del resto, crescere in un Paese dove figure
condannate per frode, peculato e corruzione occupano indisturbati cariche di
grande rilievo nella pubblica amministrazione, nelle quali vengono confermati
persino dal voto popolare, non aiuta ad acquisire un differente concetto di
questa virtù. Appena, però, si diventa coscienti che se non fosse per gli atti
onesti, e più in genere per quelli eticamente responsabili, la società e la
cultura neppure esisterebbero, non si può ripudiare né sottovalutare
l’attitudine etica senza provare vergogna, come non si può che andar fieri di
sé, quando si è consci di appartenere alla classe dei responsabili. Difatti,
l’onestà di uno si risolve in un vantaggio per tutti, mentre dalla disonestà
traggono vantaggio solo chi la compie e i suoi sodali: un vantaggio, tuttavia,
che di fronte a quello dell’onesto, qualora la riconoscenza meritata non resti
latente, è come la luce di un fiammifero sotto un sole sfolgorante.
venerdì 16 febbraio 2018
Sovrani e sudditi
C’erano una volta i re, c’era la disuguaglianza di fatto e di diritto, il rispecchiamento di un ordine immutabile, stabilito dalla natura, o da Dio, che poi è lo stesso, essendo questi il Creatore Pantocràtore. Tale ordine voleva che i territori abitati dall’uomo fossero società composte di un principe sovrano e dalla schiera dei suoi sudditi, divisi in vari livelli o caste. Accadde poi, dopo molti libri, scontri e ammazzamenti, prima in un Paese, poi in un altro e in altri ancora, che tutti i sudditi, anche quelli più umili, furono dichiarati sovrani. Non doveva più essere che un uomo stesse sopra, più in alto, più libero di tutti gli altri, né che qualcuno subentrasse al suo posto dopo morte o rinuncia. Fu solennemente proclamato che ognuno ha diritto a una parte di potere, la stessa di ogni altro, almeno nell’essenza. Si attribuì la sovranità, termine che fu conservato, all’insieme dei cittadini, al popolo, inteso come tale insieme, sotto cui non restava dunque che il territorio stesso, con i suoi minerali, piante e animali.
Tuttavia, a una svolta epocale, dopo secoli di immobilità, non ci si può adattare da un giorno all’altro, ci vuole tempo, esercizio, pazienza. Ecco perciò apparire quelli che fraintendono grossolanamente il senso dell’avanzamento, attribuendosi il diritto anche di rubare, picchiare e ammazzare chicchessia. «Non era forse questo che i re ordinavano ai loro sgherri, quando pareva loro? Solo che io lo devo fare da me, il più delle volte». Facile vedere come questi soggetti non abbiano ben compreso che l’accesso alla sovranità riguarda loro come ogni altro cittadino, perciò i casi
sono due: o si finisce nel bellum omnium contra omnes con relativo crollo della condizione umana, o si coniuga la libertà con il rispetto generale, come dovrebbe essere sempre. Eppure, una piccola parte di nuovi despoti, quelli particolarmente abili nel settore degli affari, trovano modo di riprodurre, per molti aspetti, la figura del monarca, al punto di compiere atti illeciti senza veder scalfito il loro potere, che dai campi dell’economia e della finanza si estende a quelli della stampa e della politica. Questo strano fenomeno è reso possibile da chi non si sente degno dell’emancipazione. «Io “sovrano”? Grazie, ma non mi incantate, in tutta onestà sono e resto suddito, sovrano ditelo a quelli ben più forti di me». Più il numero dei timorosi è elevato, più la sovranità popolare resta allo stato di desiderata, e la rivoluzione democratica si mostra come un processo lento e incerto.
lunedì 12 febbraio 2018
Il sale e la peste
Tesi. Senza l’uomo, che cosa sarebbe il mondo? La Terra è un miracolo, con il suo pullulare di esseri viventi, il tesoro delle forme, dei colori, dei fenomeni naturali; affascinante è il cielo, e di là di esso l'incommensurabile moltitudine di stelle. Tuttavia chi, di fronte a tutto ciò, può farsi pervadere dalla meraviglia, oltre all’uomo? Forse un dio, un angelo, un’intelligenza aliena: tutte ipotesi che attendono da millenni la conferma, e che ipotesi potrebbero restare per sempre. E i capolavori dell’arte, della musica, le scoperte della scienza, le opere sempre più raffinate dell’ingegno umano, sono forse cose trascurabili, o piuttosto aggiungono valore a valore, spettacolo a spettacolo? I corpi dell’uomo e della donna, i volti, gli sguardi, le parole, i gesti, le danze, non sono spesso tali da commuovere fino alle viscere? Sì, l’uomo è il sale della Terra.
Antitesi. Con l’avvento dell’uomo, la colpa fece il suo ingresso sulla scena del mondo, e si sparse nei cinque continenti. Certo, la natura conosceva già il dolore, l’agonia dell’animale da preda tra le fauci del carnivoro, ma nel dominio dell’istinto non venne mai meno l’innocenza, e gli equilibri biologici restavano inalterati. La coscienza doveva porsi a coronamento dell’evoluzione universale, ma l’uomo è fermo in mezzo al guado, con l’istinto
alle spalle e la coscienza davanti a sé, non raggiunta. Ecco perciò il dilagare dell’inganno, della malafede, della meschinità, dell’avidità, di tutti i generi d’ingiustizia. Ecco, infine, la vita sul pianeta violentata e minacciata dall’invadenza di una singola specie, schiava e vittima del proprio stesso potere. Sì, l’uomo è la peste della Terra.
Sintesi. Lotta intraspecifica, lotta dell’uomo contro l’uomo: questo il destino di una specie tanto diseguale da far convivere i contrari. Ogni fazione, radunata attorno al suo comandante, si reputa nel giusto avendo obiettivi divergenti da quelli dell’altra, ma tra
queste vi è, forse, quella che possiede un criterio oggettivo con cui distinguere il
bene dal male, ciò che va conservato e ciò che va cambiato. Perlomeno, vi dev’essere
la parte che discerne in base a una ragione più solida e profonda delle altre:
solo se questa trionferà l’uomo potrà
essere proclamato sale, e in nessun modo
peste di questa Terra.
La grande bolla
Coscienza
biologica è comprendere sia che l’essere interessati da un processo di
espansione spazio-temporale produce piacere, sia che non sempre ciò coincide
con il bene dell’interessato. Quando non coincide, un po’ come la metaforica bolla di ambiti meno vasti, il piacere
illude, rinforza verso un precipitoso arretramento, segnato dal dolore e dalla
desolazione, ma, se non è di quei casi in cui si perde tutto, foriero anche di
apprendimento e di una completa revisione del concetto di bene. Con l’andare del tempo diviene sempre più probabile che dell’inganno,
ben noto come problema umano individuale ai maestri spirituali di ogni tempo e
luogo, sia vittima l’intera nostra specie, la quale sembra ormai diventata il
kamikaze del mondo. Chi oggi vede non lontana la catastrofe ha ragioni concrete,
essendone preannuncio i cambiamenti climatici, l’inquinamento delle acque, la riduzione
della biodiversità, il fatto che la popolazione umana, con i suoi consumi, i
suoi rifiuti e le sue attrezzature, tra cui le armi nucleari, ha superato i
sette miliardi e mezzo di unità, e aumenta tuttora, seppure con un tasso di
crescita minore rispetto al picco degli anni Sessanta. In mezzo alla mediocrità
di quelli che non percepiscono il pericolo, quelli che preferiscono non
pensarci e quelli che vorrebbero mettere la retromarcia alla macchina del tempo,
spicca per saggezza chi si impegna per la conversione ecologica delle tecniche
inquinanti, chi è disposto a cospicue rinunce e particolari attenzioni per non
partecipare al disastro, chi difende i patrimoni naturali dagli sfruttatori
intensivi, il che, in certi Paesi tropicali, significa spesso martirio. Comprensione e riconoscenza:
questi i campi in cui l’uomo può trovare, al posto di quella momentanea e
illusoria, un’espansione autentica.
Iscriviti a:
Post (Atom)