martedì 27 febbraio 2018

Essere o non essere onesti

«Purtroppo sono onesta», sentii dire un giorno da Marta, una studentessa che aveva appena saldato un debito, per via di un’utenza presso un’abitazione da lei lasciata un paio di mesi prima. L’accordo era meramente fiduciario, ed io, con intento elogiativo, le avevo fatto presente che, in quei casi, si trova spesso chi se ne infischia e sparisce senza aver pagato, certo di non subirne conseguenze perniciose. La risposta della giovane mi giunse come una nota stonata, e il mio tentativo di rettificarla non fu abbastanza efficace. Quel “purtroppo” anteposto all’aggettivo manifestava l’idea che la disonestà paghi assai più del suo opposto, cioè che l’essere onesti sia un difetto, o una condanna. Un’onestà come quella di Marta lascia molti dubbi, poiché sembra dovuta alla debolezza anziché alla forza d’animo, e avere come effetto la frustrazione, non certo l’orgoglio. Del resto, crescere in un Paese dove figure condannate per frode, peculato e corruzione occupano indisturbati cariche di grande rilievo nella pubblica amministrazione, nelle quali vengono confermati persino dal voto popolare, non aiuta ad acquisire un differente concetto di questa virtù. Appena, però, si diventa coscienti che se non fosse per gli atti onesti, e più in genere per quelli eticamente responsabili, la società e la cultura neppure esisterebbero, non si può ripudiare né sottovalutare l’attitudine etica senza provare vergogna, come non si può che andar fieri di sé, quando si è consci di appartenere alla classe dei responsabili. Difatti, l’onestà di uno si risolve in un vantaggio per tutti, mentre dalla disonestà traggono vantaggio solo chi la compie e i suoi sodali: un vantaggio, tuttavia, che di fronte a quello dell’onesto, qualora la riconoscenza meritata non resti latente, è come la luce di un fiammifero sotto un sole sfolgorante.

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