«Purtroppo sono onesta», sentii dire un giorno da
Marta, una studentessa che aveva appena saldato un debito, per via di un’utenza
presso un’abitazione da lei lasciata un paio di mesi prima. L’accordo era
meramente fiduciario, ed io, con intento elogiativo, le avevo fatto presente
che, in quei casi, si trova spesso chi se ne infischia e sparisce senza aver pagato, certo di non
subirne conseguenze perniciose. La risposta della giovane mi giunse come una
nota stonata, e il mio tentativo di rettificarla non fu abbastanza efficace.
Quel “purtroppo” anteposto all’aggettivo manifestava l’idea che la disonestà
paghi assai più del suo opposto, cioè che l’essere onesti sia un difetto, o una
condanna. Un’onestà come quella di Marta lascia molti dubbi, poiché sembra
dovuta alla debolezza anziché alla forza d’animo, e avere come effetto la
frustrazione, non certo l’orgoglio. Del resto, crescere in un Paese dove figure
condannate per frode, peculato e corruzione occupano indisturbati cariche di
grande rilievo nella pubblica amministrazione, nelle quali vengono confermati
persino dal voto popolare, non aiuta ad acquisire un differente concetto di
questa virtù. Appena, però, si diventa coscienti che se non fosse per gli atti
onesti, e più in genere per quelli eticamente responsabili, la società e la
cultura neppure esisterebbero, non si può ripudiare né sottovalutare
l’attitudine etica senza provare vergogna, come non si può che andar fieri di
sé, quando si è consci di appartenere alla classe dei responsabili. Difatti,
l’onestà di uno si risolve in un vantaggio per tutti, mentre dalla disonestà
traggono vantaggio solo chi la compie e i suoi sodali: un vantaggio, tuttavia,
che di fronte a quello dell’onesto, qualora la riconoscenza meritata non resti
latente, è come la luce di un fiammifero sotto un sole sfolgorante.
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